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Sentirsi a casa in terra lontana: Kabul 2009

  • Immagine del redattore: Tiziana Bradi
    Tiziana Bradi
  • 17 set 2024
  • Tempo di lettura: 3 min

Aggiornamento: 18 set 2024


Immagine del monumento di Kabul sotto un cielo verde-blu intenso al tramonto, simbolo della resilienza della città in tempi di conflitto.
Monumento di Kabul al tramonto

Era il 2009, un anno complicato. Mio padre stava morendo, e io ero in viaggio verso Kabul. Una volta arrivata, mi sono sentita a casa. Lui, un incursore della marina classe '31, mi aveva spronata ad andare: "Vai, l'adrenalina della guerra è per pochi!". Attraverso un contatto con la ICRC, ottenni l'occasione di partire. E così feci.

 

L'arrivo a Kabul

Parigi, Dubai (dove dimenticai il passaporto in bagno... trovato fortunatamente) e, finalmente, Kabul. Nessuno era venuto a prendermi. Panico. Un signore mi propose di accompagnarmi e, da folle, accettai. Ma mi sentivo tranquilla, perché in quel posto lontano e in guerra, mi sono sentita a casa, da subito.

Arrivai al compound della ICRC: tutti con gli occhi fuori dalle orbite. Ma a me non era successo niente, tutto era andato come la pancia mi aveva suggerito: bene.


Ritratto di una donna sorridente che indossa un hijab nero all'interno di un'auto a Kabul, esprimendo un momento di serenità durante un viaggio in Afghanistan.
Tiziana a Kabul

L'incontro con Abdullhaj

Mi assegnarono un driver, Abdullhaj. Un uomo giovane, sposato, con quattro figli. Mi portava ovunque, anche oltre. Volevo vedere, catturare emozioni, anche proibite, ma lui era sempre lì, con me, una delicata guardia del corpo che non riusciva a dirmi di no.


Esplorando Kabul e dintorni

Nel tempo libero, siamo andati ovunque. Mi istruiva, mi consigliava, ma alla fine ero avida di immagini, e si faceva sempre a modo mio. Povero Abdullhaj!

Il bird market, dove cadevano bombe un giorno sì e l'altro pure; i Buddha di Bamiyan, dove ci fermarono i talebani e ne uscii viva (grazie a lui) pur senza avere il passaporto diplomatico con me. Il museo della tecnologia a Kabul, dove riuscii a convincerlo ad entrare con me: non aveva i soldi e si vergognava a dirlo. Ma come lui c'era per me, io c'ero per lui, e venne. E si commosse, perché non aveva mai potuto vederlo.


Immagine di un anziano afghano con una barba bianca e un turbante tradizionale, simbolo della cultura e delle tradizioni radicate del popolo afghano.
Anziano afghano in abito tradizionale

Un'amicizia nata dalla gratitudine

Era una gratitudine reciproca, diventò un'amicizia. Mi fece pazientemente fare il giro dei "venditori di tappeti", dove mi diedero della Donna Berbera (un complimento per loro, perché sapevo contrattare); mi fece conoscere il panettiere del Naan, un pane buonissimo, che panificava nel suo quartiere. Ne uscii con cinque naan incartati. Loro, senza niente, regalavano pane a me, che avevo tutto.

 

Ritrovare le radici in una terra lontana

E quelle vie di pietra, uomini con i volti scavati nella pietra. Gli odori delle carni cotte sul fuoco, la fierezza dei volti che riuscivo a vedere, quelli degli uomini. Tutto mi riportava in Sardegna, terra natia di mio padre. E io, lì, mi sentivo a casa.

Nessuno mai mi chiese un centesimo. Nessun adulto, nessun bambino, tutti con i loro sguardi penetranti, per capire chi fossi e cosa volessi.


Un incontro speciale al mercato

Solo un bimbo mi "fregò", per comprare un sacchetto di cardamomo. Avevamo appuntamento al market e Abdulhaj non era con me. Pagai oro, ma andava bene così. Quell'oro era una stupidaggine per me ma tanto per il bimbo. La donna berbera che era in me svanì davanti a quegli occhi neri che sorridevano con malizia. Soldi ben spesi.


Immagine di una donna afghana sorridente con un hijab azzurro, seduta per un pranzo tradizionale, rappresentando la cultura dell'ospitalità in Afghanistan.
Tiziana a pranzo da Abdullhaj

Un pranzo memorabile con la famiglia di Abdullhaj

Ho avuto l'onore di essere invitata a pranzo dal mio fidato driver. Credo di essere stata la seconda donna occidentale ad entrare in una casa privata in Afghanistan. Ero in palla totale, non sapevo cosa regalare alla padrona di casa: Shabannah. Suo marito mi disse che lei desiderava da tempo un burka, ma era troppo caro per loro. Lui, uomo moderno, era contrario: "È così bella!" diceva. E io, con la morte nel cuore, la accontentai.

La conobbi, ed era veramente bella. Preparò un pranzo a cui non partecipò, usanze. Anche con un uomo moderno. Un'esperienza atavica: portare il cibo alla bocca con le mani, in silenzio, lei presente ma seduta in disparte. I figli ubbidienti. Sapori e odori che mi riportavano all'infanzia, alle pecore, a quando si era felici attorno ad un piatto. Poche volte ho mangiato meglio.


Giovane ragazzo afghano sorridente in piedi accanto a un asino, scena quotidiana di vita nelle strade di Kabul, Afghanistan.
Ragazzo afghano con un asino a Kabul

Il fragore delle bombe e la forza del popolo Farsi

E poi le bombe, e le sirene. Quell'insieme ti toglie il fiato. Vetri che si infrangono, tante volte di notte, intimidatorio. Altre, le peggiori, di giorno. La conta di chi non c'è più, i pezzi dilaniati da raccogliere, parenti disperati ma con contegno.

Il popolo Farsi, guai a dir loro che sono arabi, nella sua compostezza, sempre senza chiedere nulla, più propensi a dare che a ricevere. Fai loro un regalo e si intimidiscono, si sentono a disagio. Devono subito ricambiare, come per dimostrare che a loro non manca niente. Fieri, sempre. Fieri di condividere quel poco. Fieri di sapere che loro saranno sempre lì, in barba a chi, da decenni, cerca di prenderseli.

Era il 2009, mio padre era appena morto, e io mi sono sentita a casa.

 Fotografia in bianco e nero di un uomo afghano mentre spinge un carretto, catturando la durezza del lavoro quotidiano nelle strade di Kabul.
Uomo afghano che tira un carretto

 
 
 

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